Il Maître

IERI – OGGI – DOMANI

All’origine fu scalco (dal gotico skalks, ossia «servo»), Ma, a differenza del servo comune, lo scalco del Medioevo e del Rinascimento era un servitore specializzato con incarico di trinciare le carni durante i banchetti e servirle già tagliate ai commensali. Nei pranzi solenni vestiva mantello paonazzo e cappa rossa d’ermellino ed era attorniato da «scudieri trancianti» pronti a tagliare le carni disposte sul vasellame, sotto la sua guida. Si può dire che il suo profilo professionale ebbe così una sua prima identità, in considerazione anche che in quei tempi comparivano sulle mense grandi pezzi di caccia e piatti da «gran parata» con cinghiali, cervi, cigni e pavoni da sporzionare abilmente perché le loro carni potessero essere consumate con un certo stile, non essendo ancora in vigore l’uso della forchetta (apparsa verso la fine dei 1400).
Assunse poi l’ufficio di maggiordomo e poi ancora quello di «direttore di mensa»,
Occorre attendere la modernizzazione dell’attività alberghiera ad opera dello svizzero Cesare Ritz (1860-1918) per vedere inquadrato in un ordine gerarchico il personale addetto al servizio ristorante, comprendente ben 15 figure professionali con qualifiche diverse espresse in lingua francese e ancora oggi in uso. A capo il Maître d’hotel.
Ritz, considerato ai suoi tempi un vero riformatore dell’ospitalità alberghiera, riuscì ad imporre la «finesse de l’esprit», i modi e le usanze della buona società francese che si allargava sempre più verso i ceti borghesi, con gli ultimi bagliori delle Case principesche ed aristocratiche, sullo sfondo di una moderna «hotellerie», dotata di ogni comfort, per una clientela internazionale.
Ancora oggi possiamo individuare l’inconfondibile stile architettonico degli alberghi a lui commissionati o da lui stesso voluti, così come è pervenuto fino ai nostri giorni il rigore di un’attenta selezione del personale destinato ad un servizio impeccabile.
Si era alla fine dell’800 quando il Maître indossò il frack nei locali di lusso e nei banchetti ufficiali. Quella marsina nera a coda di rondine, nata nel 18′ secolo, fu nel 19′ secolo l’abito maschile da cerimonia d’obbligo.
Ma la divisa classica del máitre divenne lo smoking, abbreviazione di «smoking jacket» (espressione che ebbe moda breve), una volta in uso tra gli uomini inglesi che solevano ritirarsi a fumare dopo il pranzo. L’uso dell’abito, chiamato poi dagli inglesi «dinner jacket», si diffuse per essere indossato da tutti coloro che partecipavano a pranzi e serate di riguardo. Per il maitre lo smoking è entrato nel codice comportamentale della sua immagine, in segno dì rispetto per coloro che a tavola si affidano alle sue cure. Meno imponente nell’aspetto ma sempre decoroso nella «mise» di tutti i giorni troviamo il «Maestro di casa» dei nobili e ricchi Casati e quello degli esclusivi circoli culturali delle grandi città.
In qualunque abito abbia operato o operi un maitre è sempre la figura cardine dell’arte dell’ospitalità.
Quando ai primi del ‘900 tutta l’Europa fu affascinata ed influenzata dalla ventata di un binomio di successo: Cesare Ritz – Auguste Escoffier, anche l’Italia si uniformò a quello stile di raffinatezza che in tema di ristorazione trovò il suo simbolo nella figura del maitre.
Fu così che il máitre italiano, spinto da un innato senso del dovere e dell’immagine che egli rappresentava in uno scenario di accentuata professionalità, provvide da solo a formarsi il necessario bagaglio di cultura, viaggiando e confrontandosi nelle strutture ristorative dei vari Paesi del mondo. Le esperienze vissute con molti sacrifici lo dotarono di stile, educazione, buon gusto e della conoscenza di più lingue, parlate con perfetto accento linguistico di origine. Nel ’90 Enrico Guagnini scrisse: « il maitre italiano è il più completo del mondo. Quando il grande Escoffier dovette scegliere un maitre per il suo albergo personale, l’Ocean di Ostenda, puntò il dito su Luigi Carnacina, allora quarantenne maitre dell’Hotel «Al Ciro’s di Montecarlo».
Poi aggiunse: «Sinigaglia è sempre orgoglioso di essere stato allievo di Carnacina e ne impersona l’attuale, moderna, qualificata generazione che ha il compito di rappresentare in prima posizione l’Italia».
E la nuova generazione punta ancora più in alto perché ha il vantaggio di un supporto di formazione tecnico-culturale avuta negli Istituti professionali alberghieri, che le consente e le facilita, ancora in giovane età, l’aggiornamento sul continuo processo evolutivo di un settore oggi definito «industria dell’ospitalità».
In questi ultimi anni un modello di organizzazione di stampo americano ha portato profondi cambiamenti nella gestione alberghiera ed anche nel settore della ristorazione. La nuova dimensione americana comprende termini cui corrispondono valori di mercato, come budget, marketing, catering, menù planning, dietosystem (calcolo computerizzato dei valori nutrizionali degli alimenti). E poi ancora: checking list, banqueting e tante altre.
Oggi la parola d’ordine dell’imprenditore è massimizzare l’efficienza produttiva del settore, più che mai esposto ad alti costi di gestione, alle continue oscillazioni dei prezzi e alla forte concorrenza. Occorrono un sistema operativo programmato ed un’organizzazione che assecondi con competenza tendenze e mode, pianificando l’intero comparto della ristorazione, a cominciare dalle previsioni dei flusso dei clienti reali e potenziali ai preventivi dei costi. dalla contabilità computerizzata al piano d’azione da seguire, dai controlli da eseguire con rapidità ed efficacia alle strategie da adottare per uscire vincenti, in un clima ultraconcorrenziale, con la propria offerta e con eventi di consistente qualità ( come quello di un banchetto), mentre la guerra di marketing, coniata con la definizione «marketing warfare», diventa sempre più infuocata.
Tra i tanti meriti di Escoffier ci fu quello di essere anticipatore dei nostri tempi con una sua frase: «In futuro la cucina e la ristorazione diverranno più scientifiche e precise».
Ed il bravo e giovane maitre si cimenta, studia, frequenta corsi di aggiornamento, matura le sue esperienze, eleva la sua cultura tecnica-amministrativa, enogastronomica. Può quindi aspirare ad entrare nel mercato del lavoro della CEE con il riconoscimento di maitre libero professionista e, con un po’ di fortuna, Food and Beverage Manager.

MAITRE E LAMPADE

Il maitre è un operatore tra i più prestigiosi nel settore della ristorazione La sua figura quale «maestro di casa» – ebbe già nel passato una sua collocazione di ruolo cardine nell’arte dell’ospitalità. Era presente in tutte le case nobili e, dell’alta borghesia, con la piena responsabilità dell’intero «mènage» di casa. Da lui dipendevano la governante personale dei padroni, i cuochi i camerieri, gli uomini di fatica. Organizzava i ricevimenti, sia privati che mondani, suggerendone tutti i particolari di effetto, che garantissero il sicuro successo. La sua formazione avveniva sotto la diretta guida di maestri già affermati, passando al loro servizio da una casa all’altra.
L’affermazione, del termine «maitre» (maestro in italiano) avvenne con la modernizzazione dell’attività alberghiera per opera dello svizzero Cesare Ritz (1860-1918).
Anch’egli, da ragazzo di campagna, aveva cominciato come garzone, per poi incamminarsi nel settore della ristorazione come aiuto-cameriere. La sua sfolgorante carriera lo porta a dirigere il Savoy di Londra, dove impose l’acqua corrente in tutte le camere, i bagni e le luci soffuse in ambienti destinati ai momenti di relax, in una quiete addolcita dalla musica di un’arpa e di un pianoforte. Per le sue innovazioni di ammodernamento, sovrani e principi dell’epoca, suoi clienti, lo definirono il «Napoleone degli albergatori».
Ritz volle a capo della ristorazione Auguste Escoffier, allora quarantatreenne e già cuoco famoso. Volle anche che il maitre, assunto per dirigere i servizi del ristorante, delle Sale da tè e dei saloni, dove, nel corso di alcune feste, il canto di Enrico Caruso allietava gli illustri Ospiti, entrasse in un rapporto di aperto e pacifica collaborazione col cuoco, senza prevaricare la sua opera.
Cesare Ritz creò un suo stile, di gran classe, che riportò anche in altri alberghi di Parigi, Londra e Madrid, sorti col suo nome perché da lui creati. Lo stesso stile lo ritroviamo in alberghi nati successivamente nelle più grandi città europee e u’iformati alla linea Ritz, sia nell’im . m . agine architettonica, che nei servizi.
Oggi non c’è albergo di buona cate oria, ristorante di provato decoro, cne non abbia un maitre nella sua perfetta divisa (lo smoking ha sostituito in tempi più moderni il frac), il quale accoglie il cliente in sala, lo guida verso il suo tavolo, previene i suoi desideri, lo aiuta nella scelta delle pietanze e suggerisce il vino migliore da abbinare ai piatti richiesti. Al cliente egli può anche riservare la sorpresa di un suo piatto fiambé, da preparare sull’apposito carrello portato accanto al tavolo. Ed è questo il suo momento di rivalsa, professionale per ciò che riguarda la sua cultura gastronomica che, come ha appreso nella Scuola alberghiera e nel corso della carriera, sposa il culto del galateo della tavola nell’ambito delle sue competenze.
Anche il piatto alla lampada prese il via ai tempi di Ritz ed Escoffier La prima preparazione ebbe come ingrediente base le crépes (blinis nella cucina russa e frittatine, nella nostra), Fino ad allora realizzate con una ricetta povera e popolaresca per contenere ed accompagnare altri ingredienti, dal dolce al salato secondo le preferenze. Fu il maitre Henry Charpentier il primo ad usare le «lampe» in sala, al Café de Paris di Montecarlo nel 1895.
Una sera, ad ora tarda, giunse nel locale l’allora principe di Galles accompagnato da una bella ragazza. La cucina era già chiusa ed il maitre stava completando il servizio agli ultimi clienti. La coppia chiese qualcosa da mangiare, che non fosse dessert di dolci, o frutta, o formaggi. Charpentier non si perse d’animo. Andò nelle celle di cucina e, tra le cose più sbrigative da preparare, trovò delle crépes già pronte. Le portò in sala, sistemò le «lampe» su un carrello, che accostò a quel tavolo tanto speciale e diede il via alla sua creazione. Fece sciogliere in un padellino del burro, vi riscaldò le crépes le profumò con cubetti di zucchero strofinati su buccia d’arancia, vi versò sopra del succo d’arancia e Grand Marnier, piegò a fazzoletto ogni crepe e servì elegantemente la specialità. Fu lo stesso principe, il futuro Edoardo VII, a battezzare le «Crépes Suzette» in onore della suo «piccola amica». Da allora non c’è maitre che non si ispiri, per inventare piatti da preparare al centro della sala o accanto ad un tavolo, in una padella d’argento e su di un fornello alla lampada, anch’esso d’argento. Possono essere primi piatti di paste asciutte, piatti di pesci o di carni, dessert alla frutta o crepes è sempre uno spettacolo di alta professionalità, coronato (secondo le preparazioni) dall’effetto della fiambata finale.

IL profilo del MAITRE D’HOTEL

Per gentile concessione pubblichiamo questo articolo apparso su « Notiziario Hospes & Il Maître d’hotel, come uomo e come tecnico, merita la più grande e attenta considerazione da parte dell’opinione pubblica, perché egli reca un preciso contributo al servizio della nostra vita.
Artefice della ristorazione, egli si mette in tal modo al servizio di quelle fondamentali manifestazioni della civiltà umana che si realizzano attorno alla – tavola – nell’ambito di una mensa organizzata ed efficiente. Infatti per la nostra esistenza non basta fruire dei solo apprestamento materiale dei cibo. Sebbene, in talune situazioni ci si può accontentare dei distributore automatico, dei panini imbottiti, si ha normalmente bisogno della tavola accogliente come momento di sosta e di sollievo, come punto d’incontro con i nostri simili. La ristorazione diviene indispensabile per chi è lontano dal desco familiare, per il viaggiatore, il turista, l’uomo d’affari, o per il cittadino che – specialmente alla sera – intende trovare nel ristorante il – relax » la ricreazione, la festosità. Ed è appunto l’intervento dei Maitre che permette la piena realizzazione dei servizi ristorativi, la loro miglior riuscita e la soddisfazione delle molteplici necessità presentate dalla vita moderna.A ben poco varrebbe infatti utilizzare locali elegantemente arredati, attrezzature e impianti tecnici, cibi buoni e coscientemente preparati, se mancasse « I’accueil » dei Maitre e dei suoi collaboratori, l’ordinata e dignitosa esecuzione dei servizi, il giusto suggerimento nella scelta delle vivande e dei vini, il sorriso e la parola gentile e – perché no? – il saper presentare I’« addition » nel momento dei congedo dal locale.Oggi, data l’enorme diffusione dei turismo e la sua funzione eminentemente « sociale », quale componente reilegrativa delle forze umane, anche la figura dei Maitre d’Hotel si inserisce validamente nella struttura organizzativa turistica e per questo assume il ruolo di servizio sociale elevatissimo.
Il Maitre è cosí protagonista della « funzione di ospitalità – (senso di dignitoso altruismo, di premura, di gentilezza e di efficienza), senza la quale il turismo diverrebbe una caotica – transumanza » di genti insoddisfatte e disordinate…
]I nostro « Maggiordomo » deve dunque svolgere un compito assai arduo e impegnativo. Oltre alla fatica fisica e alla tensione nervosa proprio di chi è a contatto dei pubblico e cerca di arrivare a tempo debito a soddisfare nelle infinite necessità, il Maitre d’Hotel ha da padroneggiare situazioni psicologiche spesso difficili nel far fronte a « individui » (non li chiamo clienti) pretenziosi oltre modo o irritabili, maleducati o irriconoscenti, così come a persone abuliche, eternamente indecise con le quali occorre pure esercitare tanta pazienza. Occorre inoltre osservare che il capo della ristorazione è solitamente sensibilissimo alla sua funzione di « ospite » essendo raro giungere ai massimi gradi della carriera senza possedere -un’autentica vocazione; soffre, nel vero senso della parola, nel solo pensare di non poter far pervenire il suo personale modo di trattare il cliente attraverso l’intermediazione dei suoi collaboratori. Per quanto egli abbia saputo istrurire i dipendenti, egli, sempre « sulle spine – è preoccupato che il suo « pensiero », il « suo »- stile, la sua premura, la « sua » gentilezza siano travisate e non arrivino a destino nel modo dovuto.

L’accoglienza e il « servizio » (con la esse maiuscola) sono infatti assolutamente personali e chi ne possiede la massima sensibilità vive dentro di sé un dramma che può frustrarlo e negargli le legittime e meritorie soddisfazioni